“La musica è la mia terapia” così Zoe Wees commenta nella sua intervista su D di Repubblica il suo avvicinarsi al mondo discografico. In pieno lockdown lo scorso maggio è uscito “Control” il singolo d’esordio di questa diciottenne tedesca che racconta la sua lotta con l’epilessia.
Una canzone che ha qualcosa di vero da dire molto spesso la riesci a riconoscere dalle prime note. Ed è sicuramente il caso di questo brano che ha anche esordito in un momento molto difficile che ben si sposava con l’atmosfera di lotta a livello globale.
Mentre il mondo culturale cerca di trovare nuovi modi per sopravvivere economicamente, sempre più persone trovano la loro forza nell’arte, nella pittura, nella scrittura e nella musica. Un modo per sentirsi vivi e ricordarci chi siamo. Sì, perché molto spesso la capacità principale della cultura è il richiamare quello che nelle nostre routine finiamo per seppellire.
L’arte ci ridà la voce. Ma non solo.
Chi mi conosce sa che da quasi un anno sono in fissa con un’app meravigliosa che si chiama Masterclass che mette in cattedra artisti, scrittori, cuochi, scienziati famosi a livello globale. In un paio d’ore ti trasmettono la loro visione del mondo. In una di queste lezioni c’è anche Carlos Santana.
Chitarrista messicano bravissimo vive la musica in un modo molto personale ed emotivo. In uno di questi video racconta di come il suo scopo, quando suona sia far piangere. Sì, piangere. Non perché è triste, anzi. Ma perché vuole emozionare, far vibrare così tanto l’emotività di chi ascolta da riuscire a farlo commuovere. E piangere per ripulirlo interiormente. Mi ha fatto sorridere perché mi ha ricordato il mio oculista che quand’ero piccola diceva che faceva bene piangere: puliva gli occhi.
Ecco, per Santana piangere vuol dire ripulirsi interiormente per stare meglio. E poi dice la frase che racchiude tutto il mondo dell’arte in poche parole: if you don’t make contact what’s the point? Cosa c’è di più vero? Se non raggiungi il cuore delle persone, qual è il senso della tua arte?
E forse è per questo che buona parte dei lettori durante il Covid ha riscoperto i classici, quelle parole senza tempo in grado di farci vibrare su tematiche a livello universale. Trame e parole semplici, senza sovrastrutture che però riescono a parlarci di quello che stiamo affrontando.
Se ripenso alle mie letture di quest’anno, in cui per la prima volta grazie alle serate poche mondane sono quasi riuscita a raggiungere la media di un libro a settimana, guardo con soddisfazione a quello che ho imparato nel riprendere in mano i Promessi Sposi. Per la prima volta mi sono accorta che quel conta di quella storia non è la vicenda di due innamorati che incontrano una serie di ostacoli per coronare il loro sogno d’amore.
Bensì si tratta della difficoltà dell’essere umano di essere nella realtà, della sua lotta, della Provvidenza, del senso di giustizia che ci auguriamo che possa accompagnarci e poi la nostra storia nazionale. Adesso quando cammino per via Lazzaretto o in zona Duomo ripenso alla solennità di Alessandro Manzoni che ci ha messo 30 anni per raccontare la sua città e creare un’opera universale. Rome wasn’t built in a day dicono gli Anglosassoni.
Speriamo allora che questo momento culturalmente difficile ci riporti alla nostra autenticità. E dia l’ingegno agli artisti di trovare idee per cavarsela, ancora una volta.
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Foto di Masterclass.