Viviamo in un mondo digitale che si basa su storie. Raccontate (molto), ascoltate (poco). Sicuramente uno sforzo creativo quotidiano non indifferente per far vivere mondi attraverso parole, immagini e video. Molto spesso, un eccesso però, che caratterizza le nostre giornate. E così uno dei più grandi scrittori americani contemporanei è uscito con “Il silenzio”, un libro di poche pagine, ambientato nel 2022 in cui ha tolto la spina alla tecnologia per dar vita a una silenziosa New York al buio. E capiamoci bene, non ha zittito internet, ipotizzando quel famoso crollo della rete a cui molti pensavano negli scorsi mesi. No, Don De Lillo ha sentito il bisogno di togliere completamente l’elettricità al mondo.
E cosa ha scoperto?
Facciamo prima un passo indietro. Sto leggendo a piccoli bocconi un libro che si chiama “Il grande libro della scrittura” di Marco Franzoso che analizza i romanzi di successo per trarre delle regole generali a cui gli aspiranti scrittori possano rifarsi, imparando così a navigare nel mare magnum della letteratura. Un bel volume che proprio nelle prime pagine racconta il valore delle storie. Perché i romanzi? Perché raccontare storie?
Per tramandare esperienze. Il romanzo permette di imparare non attraverso le regole dei saggi ma attraverso l’empatia. Calandoci nei panni del protagonista iniziamo a vedere il mondo sotto altri occhi e viviamo la sua crescita. Il percorso dell’eroe: vive in una situazione più o meno di equilibrio ma poi qualcosa si rompe e un ostacolo viene posto sul suo cammino. La storia sarà quindi il racconto delle sue avventure per superare la sfida, vincerla e creare una nuova armonia.
Questo è lo schema classico, alla base di fiabe, grandi classici e romanzi di formazione. Ma così come la società è più complessa oggi, anche l’arte ne riproduce le sue sfaccettature. Romanzi, Film, serie tv sono più complicate.
Questo mese ho recuperato su Apple Tv la prima stagione di The Morning Show che si concentra sul movimento del #metoo. Tra i meriti di questa serie tv non solo l’altissima qualità ma anche l’essere uno specchio dei nostri tempi difficili, in cui questioni come il gender gap o abuso di potere sono nelle notizie di cronaca quasi quotidiane o da salotto. Ancora una volta l’arte ci racconta questo non in maniera didascalica ma toccando i nostri sentimenti. E forse questo ci può aiutare a capire meglio quello che succede alle persone intorno a noi. Le storie ci danno una mappa per scoprire il mondo con nuovi occhi.
Ovviamente non sempre le storie ci toccano. A volte non riescono a parlarci. Penso ad esempio a uno degli ultimi romanzi letti, Chiedi alla polvere di John Fante. Un capolavoro stilistico e metaforico, con questo fascino della polvere californiana come riflesso dell’interiorità di Arturo Bandini. Un libro che ho sempre voluto leggere ma che non mi ha colpito nè più nè meno di molti altri.
Allora forse cerchiamo storie che ci possano aiutare meglio a capirci. E in un mondo che di storie ne offre troppe (provate ad aprire un feed instagram e scorrerlo per 5 minuti e scoprirete un mondo senza fine) sta a noi trovare la quadra.
E alla fine di tutto torniamo alla domanda iniziale: cosa ha scoperto Don De Lillo nel silenzio della tecnologia? Forse quello che sappiamo già tutti. Che c’è quantità ma poca qualità. Che c’è chi straparla, chi si cela, chi divaga. Scopriamo che ciò che ci sembra accettabile sui social non sarebbe accettabile o condivisibile nella vita offline. Eppure oggi lo accettiamo solo perché è tutto digitale, illudendoci che sia lontano. Ma no, non lo è così tanto.
Quante cose di qualità abbiamo realmente da dire? Molto spesso me lo chiedo prima di pubblicare una foto, prima di scrivere, prima di condividere. Questo contenuto vale la pena scriverlo? E per qualcuno vale la pena leggerlo?
Ero partita dalla voglia di condividere un post blog a settimana, per darmi un ritmo ma ho scoperto che per quanto io legga, veda film, ascolti musica o qualunque altra cosa, è difficile avere ogni settimana qualcosa di qualità da raccontare. Qualcosa che abbia valore. Almeno lo è per me. Forse una volta al mese è più facile. O forse meglio lasciarsi guidare da quel famoso detto anonimo: Apri la mente prima di aprire la bocca. Perché la qualità non sembra amica di algoritmi. O perlomeno non ancora.