How will we live together? – Biennale di Venezia

Ottobre. Quel periodo dell’anno che gli americani amano chiamare indian summer, quando un caldo atipico riscalda le città, le foglie si tingono di rosso prima di staccarsi dagli alberi e il freddo dell’inverno che sta per arrivare non sembra ancora possibile. O giù di lì. 

Quello stesso periodo in cui Woody Allen gira i suoi film a New York (cliché), mentre la natura è in tripudio e lui inizia ad arrovellarsi su se stesso. Ecco il mood di questo mese in cui ho letto pochissimo. Un libro straconsigliato (e banale) che ho lasciato a metà e quindi non citerò, un Norwegian Wood che mi ha straziato il cuore e un libro di Paul Arden, geniale.


Ma incredibilmente nonostante questo ho qualcosa da scrivere! E anche questa volta non riguarda i libri.

Essendo un mese di domande amletiche (o no?), ho ovviamente amato la Biennale di Venezia già solo per il fatto che avesse un punto interrogativo nel titolo. How will we live together? E questo occorre sempre chiederselo. 

Installazioni maestose con ritratti di umanità contaminata a tecnologia fino a nuovi modelli di ecosistemi. Sicuramente una delle edizioni più interessanti (anche se quella con sequenza di Fibronacci al neon sul muro + artista cinese che vendeva mattoni rossi tutti uguali come denuncia della standardizzazione del regime + experience in un ospedale to relief pain rimane irraggiungibile ) ma anche dai toni molto cupi.

Sarà davvero così il futuro dell’umanità? Con provette giganti per sintetizzare cibo e navicelle spaziali dove vivere come criceti con l’immensità a portata di obló? Scenari apocalittici (e non cito la plastica, grande protagonista di alcune opere) in cui un passato tribale si può mischiare con il futurismo di divise da astronauti. O universi complessi che coesistono.

La parte più rilevante della rassegna è sicuramente quella dedicata all’organizzazione degli spazi di domani. Ottimizzare ed efficientare le parole chiave. Progetti di ricostruzione urbana ad alta densità di popolazione, aree urbane recuperate e rigenerate o coworking che inseriscono anche la parte domestica accanto alle aree comuni, creando uno spaventoso sistema in cui vita lavorativa e privata non hanno davvero più confini.

Una mostra forte e che suscita reazioni contrastanti. Ma si sa, solo con i dubbi si può iniziare ad aggiustare la rotta. Sulla scia di questo ombroso scenario (compensato dalla bellezza del tramonto veneziano) il giorno dopo occorreva quindi fare quello che qualunque persona sana di mente avrebbe fatto: andare alla mostra della Disney.

Penso che se per i prossimi 10/15 anni ci sarà un boom delle iscrizioni all’Accademia di Belle Arti tra le nuove generazioni sarà grazie al Mudec del 2021. Un’infinità di bozzetti organizzati in base alle tipologie di cartoni animati a seconda delle storie originali: fiabe, miti e leggende talvolta anche sconosciute ma che la Disney ha il merito di aver reso popolari (e indimenticabili) grazie alle sue produzioni.

Rimane sempre scioccante vedere la precisione dei disegnatori degli anni ’60 che, armati di matita e foglio, creavano opere precisissime: giuro che la testa di uno dei tre porcellini era quasi più sferica del cerchio di Giotto. Poco spazio per scene animate e musiche ma comunque interessante.

Fermo restando che vale davvero la pena andare a Venezia per How will we live together ?, se dovessi consigliare una mostra su Milano però, direi quella di Monet a Palazzo Reale. Impeccabile sia a livello di organizzazione che di attenzione per i dettagli. Ci sono delle sale immersive da fare invidia alle opere di Refik Anadol (con rispetto) per ricordarci che, va bene i quadri, ma dalla tecnologia comunque non si scappa. Neanche qui.

O forse sì. Mentre proseguo con fare semi-ortodosso a evitare il più possibile i social media (tra l’altro quando ho iniziato lo sciopero, dopo 4 ore sono andati in down Instagram e Facebook. L’ho preso come un segno da parte di Mark) ho stilato una nuova lista dei libri che voglio assolutamente leggere nel tempo libero. Quello che mi illudo di avere grazie a questo vuoto digitale. Così questa piccola rubrica mensile tornerà ad avere un senso. O sarà la rubrica stessa a cambiare?

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