Per riequilibrare il post dai toni socratici (ma in maniera for dummies) dello scorso mese, questo di novembre sarà un resoconto di letture con una riflessione solida e ben decisa alle spalle. Uno di quegli articoli così disruptive che alla fine nessuno dei pochi pazienti lettori di questo blog avrà capito molto. E forse neanch’io mentre lo scrivo.
In realtà ho deciso di abbandonare le domande per parlare invece di uno degli argomenti più spinosi per ogni scrittore, fumettista, musicista o aspirante tale. Chi ha avuto a che fare con un insegnante di scrittura o un editor si sarà sentito dire almeno una volta frasi come “Devi trovare la tua voce!” o, se fortunello, “Hai una voce già bella forte”. E il piccolo scribacchino con le punte delle dita sporche di inchiostro si schiarisce la gola e si chiede come l’eroico interlocutore sia riuscito a percepire il suo mezzo di comunicazione orale attraverso un foglio scritto.
Scherzi a parte, il tone of voice è forse uno dei termini più abusati di questo periodo e non solo quando si parla di scrittori alla ricerca della propria penna ma anche della comunicazione in ambito aziendale (parentesi che giuro di non aprire). E questa ricerca è tornata a galla ben due volte questo mese in maniere diametralmente opposte.
Zerocalcare è forse uno degli autori italiani più in voga del momento e per quello che avevo sentito in giro, eravamo tutti d’accordo nel dire che ci piacesse. Perfino io, che di fumetti non ne capisco poi molto (eccetto il Topolino degli anni d’oro). Quindi ansia e trepidazione per la serie Netflix Zerocalcare – Strappare lungo i bordi.
6 episodi che in poco più di 2 ore di animazione riescono a tratteggiare perfettamente la nostra complicata generazione con i suoi dubbi, le sue domande (ops, di nuovo) e le sue crisi. L’armadillo come un buon grillo parlante elargisce consigli saggi e frasi da Smemoranda, ma ormai troppi grandi per comprarla. Come “Sei cintura nera di come si schiva la vita” e meme a gogo. O anche momenti più divertenti come l’amico che per 37 anni non fa che ripetere “Namo a pija n gelato“.
Eppure pensavo che fossimo tutti contenti e gaudenti di quest’uscita. Ma poi, la polemica su Twitter. Di quelle come non se ne vedevano dai tempi di Trump.
Ora, che Zerocalcare parli romano nelle sue vignette dovevamo immaginarcelo un pochino. E pretendere la standardizzazione di una pronuncia impeccabile non potrebbe mai rendere reale un personaggio uscito dalla sua penna. Oltre alla difficoltà di rendere comiche certe situazioni. “Che ne pensi di andare ad acquistare un cono gelato” non rende bene direi.
Ma se questo è incomprensibile per qualcuno, c’è una vera sfida in atto. Finalmente sto leggendo Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer che era nella mia wishlist da quasi un anno. Già la trama del racconto merita: un giovane ebreo americano viaggia in Ucraina per ringraziare la donna che ha salvato suo nonno durante la Seconda Guerra Mondiale.
Ma secondo voi lo scrittore come fa a rendere reali i compagni di viaggi autoctoni se non con un inglese non proprio ortodosso e costruzioni di frase stravolte? Perché è questo il tone of voice fatto bene: dare ad ogni personaggio la sua giusta voce. E no, non tutti parliamo come un libro stampato (per fortuna). Il colore della vita reale va espresso anche nell’arte. Ben vengano quindi frasi come: Su questa frase seguente ho faticato con molta durezza. Ho attentato di fare qualche pensiero.
La vera sfida è andare oltre i canoni imposti. Anche se poi leggere un libro tutto così (bellissimo eh) ti fa sembrare di avere già conseguito il TOEFL per capire il dialetto romano. Ma che bello è cercare di scoprire mondi diversi, che siano lo Shtetl di J. S Foer o la Rebibbia di Zerocalcare. Su quest’ultimo, un video che vale la pena vedere.
Ph: Zerocalcare – Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia